Cresce il welfare aziendale. Ma è scelta strategica o marchetta?
In questi giorni abbiamo letto molti articoli di imprese sociali (in gran parte cooperative) che scoprono i temi dell’innovazione sociale o almeno si autodefiniscono innovatori sociali con progetti di welfare aziendale all’avanguardia.
Ci piace ricordare questa fantastica immaginetta prodotta da Veronica Gentili (esperta di marketing su Facebook) per riportare i piedi per terra e invitare alcune di queste imprese a fare un bagno di umiltà. Così giusto per gradire…..
Social Wasching o Welfare Aziendale?
Partiamo da una prima analisi. Di solito chi fa grandi campagne comunicative di welfare aziendale, fa anche grandi attività di social washing, prima che vera strategia sociale e welfare aziendale. Vediamo di tracciare un identikit del classico washer:
- Grande impresa sociale, con molti dipendenti (o soci nel caso delle coop)
- Un CdA composto da dirigenti di partecipate o di espressione pubblica o con esperienza in altri settori
- Fatturati importanti ed utili risicatissimi
- Situazione di erosione della base sociale e del mercato basato prevalentemente su bandi pubblici o relazioni dirette con la PA, consolidate da tempo, ma che vedono l’ingresso di player più aggressivi, dinamici e non legati alle “relazioni” dirette con la PA
- Turnover dei dipendenti alle stelle, ma che non appare nell’eventuale bilancio sociale come criticità. Anzi spesso non appare nemmeno, dato considerato dalla dirigenza “fisiologico del settore”
Siamo in una situazione semi-protetta in cui l’impresa sociale opera da anni, a volte decenni, con una forza lavoro molto importante e che quindi “conta politicamente“. Impresa che da anni garantisce sicurezza lavorativa e capacità di aggiudicarsi bandi e lavori importanti. Cosa accade quindi? Accade che il sociale è un settore che tira, un settore che permette utili, un settore che richiede dinamismo e innovazione continua. In questo mercato entrano costantemente nuovi player, spesso imprese “sbarazzine” e refrattarie alle relazioni e al “bon-ton” politico-marchettaro. Entrano realtà che spintonano ed apportano nuovi modelli di gestione dei servizi sociali, non più semplicemente assistenziali. Queste realtà mettono in crisi i player consolidati. Quindi? Quindi rinnovi il sito internet, apri una pagina Facebook, un profilo su Twitter o su Linkedin o su Instagram o su Snapchat o meglio ancora su tutti. Avvi politiche di welfare aziendale, fai conferenze stampa e eventi con i soci che riempiono le sale. Ma è realmente oro ciò che luccica o si tratta di scimmiottamenti di marketing sociale, i cui strumenti non sono noti e governati?
Togliamo il velo dell’ipocrisia
Creare politiche di welfare aziendale vuol dire sviluppare servizi che fanno stare meglio i propri dipendenti (o soci), non vuol dire appagare l’ego della dirigenza.
Se per welfare aziendale si intendono:
- Sconti e convenzioni presso negozi e/o fornitori vari
- Assemblee di discussione e confronto in grandi ristoranti dove gli invitati possono venire a mangiare gratis con le famiglie
- Autoscatti celebrativi da social con messaggi del tipo: siamo un gruppo, siamo uniti, siamo fantastici (ricordano tanto i tweet di Trump rivolti alla Corea del Nord)
- Questionari di soddisfazione a domande chiuse o semichiuse e magari nemmeno anonimi
- Sito internet e profili/pagine/canali social autoreferenziali ed autocelebrativi
Se le strategie sono queste, allora si sta completamente sbagliando strada.
Si sta sviluppando una strategia marchettara e controproducente, niente di più. Inutile girarci intorno.
Per sviluppare una strategia di welfare aziendale la prima cosa da fare dovrebbe essere una seria e reale analisi dei bisogni e delle relazioni sociali con la base aziendale. Iniziare ad esempio chiedendosi: quanti soci/dipendenti contribuiscono a sviluppare ed innovare l’impresa in percentuale? Quante persone che lavorano nella mia impresa sono realmente coinvolte e la considerano la propria impresa, tanto da contribuire a svilupparla? Quanti feedback ricevo dalla base in tema di ottimizzazione dei costi? Se la base sociale è coinvolta e soddisfatta, se si pensa come base imprenditoriale (nelle cooperativa i soci sono di fatto imprenditori) e quindi contribuisce ad innovare il progetto di impresa allora l’impresa riesce a crescere, migliorare, efficientarsi, innovare.
Se ciò non avviene, e nove volte su dieci non avviene, allora non stiamo parlando di welfare aziendale, non stiamo parlando di benessere (traduzione letterale di welfare). Il welfare aziendale deve rendere partecipe e coinvolto il socio/dipendente offrendo opportunità che lo fanno sentire realmente membro di un gruppo o parte di un progetto, lo fanno stare meglio. In questo, le strategie di welfare aziendale sono realmente potenti e efficaci, ma lo sconto presso il negozio di alimentari affiliato è welfare aziendale o surroga di uno stipendio troppo basso per tenere coinvolti ed attivi i dipendenti? In cosa è benessere? A volte nascondersi dietro l’inglesismo è molto comodo….e tornare all’italiano è illuminante.
Quindi? Come si fa welfare aziendale?
Ok, ma allora? Cosa deve fare un bravo imprenditore che voglia sviluppare politiche e strategie di innovazione sociale o Open Inovation che voinvolgano i soci, i dipendenti e stake-holder? Cosa deve fare per farli stare meglio?
Andiamo per gradi. Per prima cosa un imprenditore che ha realmente intenzione di sviluppare un progetto di Open Innovation interno, deve porsi una domanda. Dove sono? Deve cioè fare una seria analisi delle condizioni di lavoro e della Brand Awareness che la propria anzienda riesce ad esprimere.
Relativamente alle condizioni di lavoro, risulta infatti fondamentale che i soci e dipendenti possano contribuire realmente a migliorarle, possano contribuire ad innovare le strategie dell’impresa, possano riuscire a promuovere l’immagine aziendale con convinzione. Per fare ciò è necessario abolire assolutamente lo strumento della cena sociale pagata dall’azienda allo scopo di creare “shooting interessanti per i media“. Si tratta di uno strumento di costruzione delle relazioni non proficuo. Non che vada abolita in assoluto, ma deve essere abolita come strumento di comunicazione esterna. Pranzare insieme è un ottimo modo per creare relazione, ma deve essere costruita allo scopo, in location adeguate e con modalità relazionali facilitate (anche da professionisti se necessario). Se ad una cena partecipano il 50% dei soci/dipendenti e poi alle assemblee sociali ne partecipano il 5% (al netto dei cooptati), allora il dubbio deve venire. Se per approvare un bilancio è necessario trovare strategie di partecipazione e non vi è una spontanea e coinvolta adesione, i dubbi devono essere forti. Non vale la scusa “la partecipazione è in calo“, NON È VERO!!!
La dirigenza deve fare un grande bagno di umiltà, uscire dalla sua torre dorata e chiedersi: Come lavorano i miei dipendenti/soci? Di cosa hanno bisogno? Ritornare a sporcarsi le mani andando in corsia, in strada, nella casa di cura e parlando con chi ogni giorno mette le mani nel dolore, nella difficoltà…. Ci si accorgerebbe che welfare aziendale potrebbe semplicemente essere un orario più flessibile, la possibilità di avere strumenti o spazi più consoni, avere l’appoggio di gruppi di supporto per scaricare le tensioni, spazi e luoghi di relax per scaricare lo stress, qualche dotazione che rende più facile il lavoro o più sereno l’ambiente. Il welfare aziendale deve appunto essere welfare, cioè BENESSERE. Lo sconto sulla bolletta del cellulare in che senso è welfare aziendale? Dove migliora la vita lavorativa del dipendente/socio?