Cooperazione e sviluppo sono ancora un connubio?
Questo articolo nasce da una riflessione su di un fatto tutto ravennate di spicciola polemica locale e che in realtà, a nostro avviso, sottende temi molto più importanti ed una domanda chiave: “Cooperazione e sviluppo sono ancora un connubio applicabile? Cooperazione ed innovazione possono essere elementi per uscire dalla crisi economica? Quali sono le migliori soluzioni unire cooperazione sociale ed innovazione?“.
Usiamo quindi un caso specifico per astrarre la riflessione. Non ci è dato conoscere i dettagli della diatriba se non attraverso la stampa ed alcuni comunicati ufficiali. Lo utilizziamo come spunto di riflessione sui ruoli sociali che alcune realtà hanno o dovrebbero avere, non vogliamo riferisci alle specificità del caso. I soggetti implicati quindi verranno utilizzati meramente come spunti per generalizzare un tema invece molto importante. Saremmo ben felici di poter discutere direttamente con gli attori e sviscerare questi temi. Ci interessa poco invece il caso nei suoi dettagli. Questo canale rimane libero e disponibile per chi vorrà confrontarsi costruttivamente.
Ma andiamo per gradi e vediamo prima l’antefatto da cui è partita l’idea di questo articolo.
Bandi, lavoro e sociale
A Ravenna, come in tutta Italia, molti servizi sono affidati a cooperative sociali. Queste cooperative gestiscono bandi e appalti in maniera ormai consolidata. Ciò comporta che molte cooperative si siano specializzate su alcune tipologie di servizi e puntualmente si aggiudicano i relativi bandi. Da una parte la specializzazione dovrebbe essere sinonimo di professionalizzazione e quindi un bene. Dall’altra si è arrivati al punto che alcuni servizi rischiano di essere considerati come un diritto acquisito. E questo è un male, perché comporta depauperamento della qualità del servizio.
C’è da dire che in genere il servizio offerto dalle cooperative sociali è ad un livello molto alto. Ma non sempre tali standard qualitativi rimangono ai livelli iniziali quando il servizio si reitera nel tempo.
La cooperazione sociale moderna è in genere caratterizzata, a nostro avviso, da scarsa capacità di innovazione e scarsissima capacità comunicativa. Fa fatica a ripensarsi in contesti diversi e più concorrenziali. Le cooperative nascono per dare risposte ai bisogni dei propri soci. Una sorta di impresa camaleonte che dovrebbe fare dell’innovazione sociale e della governance distribuita un grande punto di forza. Troppo spesso invece le cooperative sono diventate più una catena di montaggio di servizi, perdendo la loro accezione originaria e quindi snaturandosi profondamente. I soci non sono quasi mai la loro anima ed il motore, diventano troppo spesso un braccio a basso costo. Ciò trasforma cooperazione e sviluppo quasi in ossimori.
Tali riflessioni non possono essere generalizzate o riferite ovviamente a tutti i casi. Possono essere considerate una sorta di analisi di un modello causa-effetto. Ogni relazione consolidata tra ente pubblico e mondo dell’impresa rischia di introdurre tossine come ogni relazione che non si ri-innova.
In terra di romagna cooperazione e sviluppo sono sempre stati quasi sinonimi invece, avanguardia di innovazione sociale, capacità di trovare soluzione che altri non avrebbero nemmeno potuto immaginare. Una base culturale di collaborazione sociale che affonda le sue radici nel periodo post bellico, quando i romagnoli ricostruirono fisicamente e culturalmente un bel pezzo del nostro paese. La cooperazione e la cooperazione sociale in particolare rappresenta un comparto economico che oggi contribuisce a rendere questa regione una delle più ricche d’Italia. Quindi attenzione. Quello che scriviamo non è una critica al modello passato, ma al depauperamento che questo modello sta subendo. Un grido di dolore da parte di chi ama questo modello societario in maniera quasi viscerale.
Il caso della cooperativa San Vitale di Ravenna
Come detto questo articolo nasce a seguito di una diatriba tra comune e cooperativa San Vitale. I fatti dicono che un servizio giunge a naturale conclusione (affidamento). Verrà probabilmente interrotto, sostituito da un progetto di meccanizzazione dei parcheggi della città al fine di ridurne i costi e migliorarne l’efficienza. Ma lasciamo raccontare l’accaduto ai protagonisti.
La posizione della cooperativa San Vitale è affrontata in questo articolo sulla stampa locale, mentre la posizione del comune è espressa direttamente dal sindaco della città sulla sua pagina Facebook.
Vediamo perché, a nostro avviso, entrambe le posizioni siano sbagliate e senza particolare valore sulla reale situazione socio-economica della città. Una inutile polemica per ribadire posizioni alquanto scontate.
Perché la cooperazione spesso assume posizioni sbagliate?
Il primo punto è meramente tecnico e se vogliamo un tema di buon gusto. L’affidamento scade per sua natura. Quando un affidamento scade una pubblica amministrazione, nella più banale delle soluzioni, dovrebbe andare a gara per il riaffidamento del servizio. Se la cooperativa intende “preservare” un servizio deve innovare o proporre soluzioni migliorative e deve farlo con largo anticipo sulla scadenza. La data di scadenza si conosce all’atto della firma dell’affidamento. Se si vuole mantenere un servizio in gestione lo si deve innovare se non altro per avere un vantaggio competitivo nella successiva gara. Non si può agire pochi giorni prima della scadenza. Si deve iniziare a progettare il rinnovo il giorno dopo l’affidamento.
Secondo punto: i percorsi delle amministrazioni sono spesso chiari e pubblici. A Ravenna, nello specifico, i servizi simili sono andati tutti in un’altra direzione, quella della meccanizzazione. Le proposte devono essere fatte quando si discute del futuro di un servizio. In quelle sedi vanno fatte proposte alternative. Se non vi è discussione, questa va stimolata e promossa; a farlo deve essere l’impresa e non la pubblica amministrazione, a nostro avviso. Banalmente perché è suo interesse.
A scanso di equivoci ribadiamo i concetti di prima. La cooperazione in Romagna è sempre stata avanguardia di Innovazione Sociale. È sempre stato il motore dell’economia e della coesione sociale di questa terra. Ha negli anni assunto su di sé il ruolo di elemento trainante per il mondo politico ed economico. Ci chiediamo dove sia finito questo ruolo di leadership.
La cooperazione sbaglia ogni volta che abdica al suo ruolo di driver socio-economico e culturale, rischiando di trasformarsi in impresa attenta solo ai fondamentali di una realtà profit. La cooperazione non è un modello di impresa meramente profit. Altrimenti perché non trasformarsi in Srl? Questa riflessione è fondamentale per il mondo cooperativo. Il modello di business Not For Profit tipico della base fondativa della cooperazione dov’è? In quale meandro del processo produttivo delle moderne cooperative possiamo ritrovare i valori dei Probi Pionieri di Rochdale? Queste le domande base che ogni CdA dovrebbe porsi quotidianamente.
No non stiamo parlando di semplici memorie romantiche. Quel modello cooperativo è studiato in tutto il mondo per essere più resiliente di qualunque altro modello di impresa. Quel modello di business è quello che meglio si adatta alle situazioni di crisi. Quel modello è esempio di capacità di innovazione sociale a basso costo ed alto valore. Quindi il modello ideale in questa fase. Il modello con più capacità di generare ricchezza ed innovazione condivisa. Un modello che deve guardare ai fondamentali economici, ovviamente, ma non può basarsi solo su di essi per sopravvivere a se stesso.
Perché le pubbliche amministrazioni sbagliano nelle relazioni con il privato sociale?
Chi può fare innovazione?
Il primo punto chiave in cui le pubbliche amministrazioni peccano è in ignoranza, supponenza ed autoreferenzialità.
Manca fin troppo, nelle gerarchie di gran parte delle amministrazioni pubbliche, un minimo di capacità imprenditoriale, c’è una diffusa incapacità a comprendere il tema dell’innovazione sociale e molti altri temi correlati. Manca pesantemente la capacità alla formazione ed all’autoformazione. Non è un caso se la nostra pubblica amministrazione ha spesso i valori più bassi in Europa quando si analizzano gli indicatori di performance, di capacità di innovazione, di competenza tecnologica……Più di tutto però mancano le ore di formazione.
Abbiamo nel nostro paese esempi fulgidi (quanto isolati) nell’utilizzo degli strumenti dell’innovazione aperta e dell’innovazione sociale come elementi di spinta di un territorio. Aprire realmente tavoli di discussione e di approfondimento è un modo per ridisegnare il futuro ed affrontare nel migliore dei modi i momenti di crisi.
Un sindaco, una giunta, un dirigente in questa situazione dovrebbe assumere il ruolo di guida, di rassicurazione, di leadership. Dare una linea, tracciare un orizzonte e chiedere alle parti sociali ed ai cittadini di collaborare per arrivare a concretizzare quel risultato. Puntare a dare un’idea di società, di città, di territorio e mettere a disposizione gli strumenti per concretizzarlo. In poche parole dovrebbero immaginare un futuro per la loro città, tracciare la strada per raggiungerlo e mettere a disposizione e/o cercare le risorse per attuare il percorso.
Gli strumenti in questi casi sono tanto banali quanto terrorizzanti per una giunta con obiettivi classici e cioè la mera rielezione e la conservazione del proprio posto di potere. Si perché per costruire una comunità di intenti bisogna abdicare un po’ del proprio potere ed imparare ad ascoltare. Bisogna riconoscere nel territorio delle competenze e coinvolgerle dando loro potere decisionale e agibilità. Ciò è pericoloso perché si può dare spazio pubblico ad altri oltre che a se stessi. Ciò comporta il rischio di far apparire tutte le proprie incapacità ed incompetenze. Ciò richiede di riconoscersi limitati e con capacità non universali. Ciò comporta ammettere di non avere il dono dell’onniscenza e dell’onnipresenza (termine usato impropriamente, ma volutamente).
Mai come oggi aprire alla società civile, attorniarsi di competenze, costruire progettazioni aperte e condivise con il territorio è uno dei pochi strumenti di costruzione di un progetto territoriale davvero di valore. Vincere la sfida della crisi è possibile solo insieme (parafrasando una pubblicità di questi giorni di pandemia). Pensare di immaginare il futuro da soli è pura utopia, ancor di più quando questo futuro arriva inaspettato, alla velocità della luce e cambia completamente le carte in tavola.
Ma le leggi vanno rispettate ed applicate
Quando si parla di gestione del territorio la normativa diviene spesso alibi all’agire politico. È vero, le leggi vanno rispettate. Ma qual’è la legge che impone in assoluto bandi senza alcuna progettazione partecipata e condivisa? Quale legge impone bandi senza una analisi e valutazione seria e approfondita delle caratteristiche qualitative del progetto? Quale legge vieta di formare del personale competente nella valutazione dei progetti e non solo nella verifica cavillosa della parte amministrativa ed economica di un progetto?
Esistono le procedure negoziate ed esistono i tavoli di concertazione. Esiste la capacità di leggere un progetto nel suo insieme e nel suo contesto. Esistono le opportunità per mettere in comune queste competenze e costruire percorsi di gestione del territorio e dei suoi servizi tra pubblico e privato. Basterebbe aprire dei tavoli di concertazione per progettare i servizi e dove ogni realtà si propone come soggetto attuatore di una parte di essi. Una co-progettazione territoriale per il bene del territorio che si tradurrebbe in un esempio di innovazione aperta.
È faticoso? Si perché prevede una vera progettazione strategica condivisa.
È complesso? Si perché si dovrebbero mediare interessi privati e interessi pubblici.
È conveniente? Si perché si massimizza l’efficienza, si offre visibilità pubblica ai singoli soggetti, si condividono obiettivi di lungo periodo, si riducono le inefficienze, si distribuiscono le competenze, si migliora la qualità dei servizi.
Si può fare? Si ci sono molti esempi in Italia ed all’estero, nel rispetto delle leggi.
Allora perché non viene fatto? A nostro avviso la risposta è molto semplice: fare un bando richiede poca fatica, non richiede ripensare alla macchina amministrativa, è il modo più semplice per scaricarsi da ogni responsabilità, è insomma l’alibi perfetto per qualunque dirigente, politico o amministratore pubblico.
Inoltre un percorso di progettazione partecipata richiede un fattore importante: non pilotare il risultato ed accettarlo. Invece molto spesso si preferisce avviare dei percorsi di animazione sociale (come preferiamo chiamarli noi) in cui di attua semplicemente un progetto di ascolto allargato. Il risultato è un bel documento utilissimo da esporre nei convegni, ma assolutamente privo di qualunque valenza progettuale ed operativa. Insomma uno spottone.
Quindi?
In conclusione non c’è una conclusione 😉
Si perché ci troviamo di fronte ad una crisi epocale, una crisi che perdura in forme diverse da ormai più di 10 anni. Una crisi che non è meramente economica, ma che ha un pesante risvolto economico.
La crisi è molto ampia colpendo al cuore i modelli fondativi della cultura e della società moderna in termini economici, sociali ed ambientali. In Italia e nel mondo mancano leader in grado di leggere ed interpretare questa crisi e immaginare soluzioni per un futuro diverso e migliore. Mancano figure con il coraggio di osare dando obiettivi sfidanti alla società.
Oggi più che mai avremmo bisogno di leader con una grande capacità di leggere il presente e di immaginare il futuro. Leader lungimiranti in grado di lanciare il cuore oltre l’ostacolo. Leader con queste caratteristiche, forse, in Italia ed in Europa potremmo individuarli. Con fatica ma da qualche parte ci sono sicuramente.
Ma ciò non basta. Abbiamo bisogno di leader che sappiano fare anche un passo indietro. Riconoscersi come persone con debolezze ed incompetenze e che abbiano la forza di attorniarsi delle migliori menti del loro tempo. Che abbiano l’umiltà di ascoltare prima che di parlare. Che abbiano la forza di studiare prima che di andare in streaming su qualunque idiozia che fa entrare i loro post in trending topic. Insomma avremmo bisogno di leader veri con senso dello stato e valori civici forti. Invece abbiamo solo influencer.
Ma crediamo che la soluzione possa esserci e ci sarà se ognuno di noi si riconosce nel suo piccolo, nel suo pezzetto di territorio leader. Se ognuno di noi mette avanti le proprie competenze e chiede aiuto sulle proprie incapacità. Se ognuno di noi si riconosce finalmente parte di un tutto che va ridisegnato insieme. Con fatica, con calma, con rispetto e con l’aiuto degli altri per gli altri.